La giovane poetessa e fotografa milanese, nata il 13 febbraio 1912 e morta suicida a 26 anni senza aver mai pubblicato una sola poesia, è oggi ormai unanimemente riconosciuta una delle voci più alte della poesia italiana e lombarda del ’900.
Antonia Pozzi è figlia dell’avvocato Roberto Pozzi e della contessa Lina, proprietari di una vasta tenuta terriera. Antonia cresce in una famiglia ricca, colta e stimolante sotto il profilo culturale.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali ed incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, poiché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna e dai suoi modi.
Antonia è capace di amare di un amore assoluto, senza vincoli, senzi freni. Vive una storia d’amore troppo condita da anni di divario, maturità, esperienze che bruceranno ogni aspettativa verso il futuro. Antonio è un uomo troppo più grande di lei e non rappresenta la scelta di rango che il padre di lei si aspetta. Il padre, persona austera, non accetta l’amore di Antonia per un uomo più grande, cosa avrebbero pensato gli altri? Ecco che il malessere di Antonia nidifica nella poesia ed i suoi versi silenziosamente si inchiostrano taglienti, così fervidi di acuta sofferenza da scuotere l’animo anche di uno stolto.
Vorrei che la mia anima ti fosse
leggera,
che la mia poesia ti fosse un ponte,
sottile e saldo,
bianco
sulle oscure voragini
della terra.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; conosce maestri illustri: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935.
Nasce in lei l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna in provincia di Lecco. Spesso Antonia si avventura tra rocce alpine e scalate, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini.

Dolomiti
Non monti, anime di monti sono
queste pallide guglie, irrigidite
in volontà d’ascesa. E noi strisciamo
sull’ignota fermezza: a palmo a palmo,
con l’arcuata tensione delle dita,
con la piatta aderenza delle membra,
guadagnamo la roccia; con la fame
dei predatori, issiamo sulla pietra
il nostro corpo molle; ebbri d’immenso,
inalberiamo sopra l’irta vetta
la nostra fragilezza ardente. In basso,
la roccia dura piange. Dalle nere,
profonde crepe, cola un freddo pianto
di gocce chiare: e subito sparisce
sotto i massi franati. Ma, lì intorno,
un azzurro fiorire di miosotidi
tradisce l’umidore ed un remoto
lamento s’ode, ch’è come il singhiozzo
rattenuto, incessante, della terra.
Nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi;
Infatti nel 1933 Antonio Maria Cervi decide di interrompere la relazione. Antonia soffre, cerca di continuare la sua vita, scrive, fotografa per catturare istanti che in realtà non fissano altro che il suo malessere per un amore mancato…
“Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle”
In realtà lei cercherà sempre attraverso i suoi versi di placare questa sofferenza, di esorcizzare quell’amore mancato come se fosse un aborto:“…Oh, possa tu incontrare la donna che ti ridia la creatura che abbiamo sognata e che e’ morta… dalla quale avere il figlio cosi’ spesso immaginato con le solite frasi …Voglio che il bambino abbia gli occhi come i tuoi…”

Nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore amato! Tra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca.
Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, attitudine troppo arida per lei, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Ecco che i suoi album iniziano a prendere forma, vere pagine di poesia in immagini: volti di poveri contadini, lavori corali nei campi, umili consuetudini di paese e la stessa natura sembrano evocare il mito di un’esistenza “tutta nutrita dal di dentro e senza schiavitù”. Lei che è schiava di un sentimento troppo forte! Emerge in queste immagini l’aspirazione a rivelare l’essenza profonda e la ricchezza simbolica del reale, in cui l’armonia tra terra e uomo appare come l’archetipo ideale di un tempo ciclico, universale ed eterno.
Antonia quindi sembra riprendere la sua vita nella normalità, che si diceva solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riusciva a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. Siamo nel periodo delle Leggi Razziali che Antonia vive in prima persona perché alcuni suoi più cari amici vengono uccisi. Gli editori Treves, di origine ebraica, amici carissimi di famiglia, sono costretti ad abbandonare l’Italia. Antonia si dibatte tra momenti di crisi (si moltiplicano gli accenni alla morte, già rintracciabili negli anni precedenti) e di una serenità che sembra riconquistata.

La sua poesia, asciutta e penetrante, viene riscoperta anni dopo grazie a Eugenio Montale, che apprezzava in lei l’abilità di «ridurre al minimo il peso delle parole».
Antonia ha il dono di sferzare parole come lame taglienti ma la mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938. Quando Antonia Pozzi, che aveva proteso il suo sguardo quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, trova per sempre la pace imbottita di farmici e tristezza.
“Guardami: sono nuda. Dall’inquieto
Languore della mia capigliatura
Alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
Palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
È la curva dei fianchi, ma i ginocchi
E le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m’inarco nuda, nel nitore
Del bagno bianco e m’inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.”
E’ sepolta, come aveva desiderato, nel cimitero di Pasturo, in Valsassina. Lei non rappresenta solo l’angolo spigoloso tra la sua tragedia personale e la crisi di un’epoca ma l’essenza stessa di ciò che la poesia rappresenta per l’essere umano:
“la poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare”
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